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Le origini contadine dei piatti tipici marchigiani
  • 23/06/2024
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Le origini contadine dei piatti tipici marchigiani

In questo articolo vogliamo approfondire alcune curiosità sull'enogastronomia delle Marche con un pensiero rivolto ai tanti emigranti che sono partiti dalla nostra regione tra la fine dell'800 e i primi del ‘900 per emigrare in Argentina e negli altri Paesi oltreoceano ed europei, con la speranza di trovare delle condizioni di vita migliori e che hanno sapientemente tramandato le ricette e il loro sapere culinario in tutto il mondo contribuendo a diffondere la cucina marchigiana e italiana come eccellenza e come modello di ispirazione enogastronomico universale.

L'enogastronomia marchigiana deve le sue origini e la gran parte delle sue caratteristiche alla tradizione contadina a cui rimarrà sempre indissolubilmente legata.

Il contratto agricolo su cui si basava il lavoro della maggior parte dei contadini marchigiani era la mezzadria che consisteva in una suddivisione dei prodotti derivanti dal raccolto dei campi e dall'allevamento del bestiame in due metà, una riservata al proprietario dei terreni e della casa, l'altra destinata al contadino, il mezzadro appunto, e alla sua famiglia. In realtà il mezzadro spesso riusciva a tenere per sé una parte molto esigua di quello che gli sarebbe realmente spettato e doveva arrangiarsi per renderla sufficiente per sé e per la propria famiglia.

In campagna, gli eventi principali che scandivano la vita agricola erano rappresentati dalla mietitura del grano, dalla trebbiatura e dalla vendemmia: la vita contadina con i suoi ritmi e le sue stagioni è quindi strettamente legata ai pasti e agli eventi enogastronomici collegati al lavoro dei campi e al lavoro di cura e allevamento del bestiame.  Le grandi fatiche dovute al raccolto dei campi, alla confezione di salumi, prosciutti, formaggi, e alla preparazione di tutti quegli alimenti destinati a rappresentare una fonte di proteine per le rigide e dure invernate di campagna, dunque, ne sono l'esempio più evidente.

Partendo da questo presupposto, nell'immaginario collettivo sembrerebbe quasi che in campagna fosse sempre festa ma non è così, gli eventi agricoli che abbiamo citato erano infatti momenti speciali dell'anno in cui il cibo veniva consumato calibrandolo in base ai ritmi e alle fatiche a cui gli uomini e le donne erano sottoposte ma, nella restante parte dell'anno, il cibo era molto scarso e poco nutriente, per lo più ci si sfamava con la polenta mentre la carne e gli insaccati erano un bene di lusso che poche volte si aveva la fortuna di vedere serviti in tavola.

In occasione della mietitura, ad esempio, si succedevano piccoli pasti con una certa frequenza, questi consentivano di recuperare energia senza che lo stomaco si appesantisse troppo andando ad inficiare la produttività lavorativa. Il primo pasto della giornata, intorno alle sei o sei e trenta del mattino era la colaziò per poi proseguire verso le dieci e trenta con la zuppa di pane bagnato con olio, aceto e sale, alle dodici e trenta arrivava poi la merenna a base di taglioni in brodo, alle sedici si proseguivo con lu voccò che permetteva di recuperare le energie disperse durante il lavoro con ciauscolo, insaccati, pecorino e altri formaggi, frittate o ciambelle, al tramonto altro voccò con la crescia, il pane e il vino per finire la giornata con la tradizionale cena.

Altro elemento immancabile erano le bevande per dissetarsi ed avere energia per lavorare, queste erano servite dalle donne durante il lavoro in campagna e generalmente coincidevano con vino o vino cotto. Il menù dei vari pasti della mietitura variava da zona a zona delle Marche ma a volte poteva diversificarsi anche dalla casa di un mezzadro a quella di un altro. In occasione della trebbiatura era prevista un'alimentazione leggera ma fatta di tanti piccoli pasti, la giornata di lavoro iniziava molto presto, generalmente verso le due o le tre di notte per sfruttare le ore più fresche del mattino. Alle tre si iniziava con la colazione a base di caffè d'orzo con latte, ciambellotto e crostata rigorosamente fatti in casa, alle sette si proseguiva con la merenna (costituita da bruschetta, tonno, insalata) per poi passare verso le dieci e trenta alla merennetta di pane e salame e alle dodici e trenta la mattinata si chiudeva con il pranzo a base di stracciatella, bollito di manzo o di gallina, verdure cotte, zuppa inglese. A questo punto i lavoratori si concedevano un po' di riposo all'ombra di un pagliaio o sotto un albero, a metà pomeriggio poi arrivava lo stuzzichì con pane e pomodori tagliati a metà oppure pane e salame e poi seguivano altri spuntini, i voccò con pane e ciauscolo, bruschetta o pane e lonza. La cena prevedeva tagliatelle al ragù di carne, arrosto misto di pollo, oca, papera, maiale o coniglio in porchetta con contorno di insalata e pomodori, melanzane, zucchine e peperoni al forno, infine crema e ciambellone.

Ai macchinisti che erano alla guida della trebbiatrice, invece, era riservato un trattamento speciale con i voccolotti serviti al posto delle tagliatelle considerate troppo usuali e casalinghe, i voccolotti infatti venivano comprati in negozio ed erano quindi considerati un alimento di lusso.

Se la trebbiatura terminava all'ora di pranzo il menù prevedeva tagliatelle al sugo di rigaglie, oca ripiena, insalata di pomodori, peperoni, cipolle, sedani, cetrioli, pane e vino a volontà. Al termine della trebbiatura la festa era ancora più grande di quella di fine mietitura perché si era riposto il grano nei magazzini, si era fatta la divisione di quanto spettava al padrone e ci si era messi da parte il cibo per tutto l'anno.

Un lavoro molto faticoso era quello della scartocciatura che prevedeva l'eliminazione delle bratte dalle pannocchie dopo aver portato il granturco nell'aia, in questo frangente le vergare si procuravano la farina per fare la polenta che provvedevano poi a condire con abbondanti strati di sugo di carne. La vendemmia era invece una vera e propria festa pagana, richiedeva un lavoro lungo e meticoloso che iniziava ripulendo la cantina e le botti, il giorno della vendemmia i più giovani andavano a raccogliere i grappoli per riporli nelle ceste e poi rovesciarli nelle casse di legno, l'uva finiva in cantina e con le bigonce finiva in un grande tino, qui iniziava la pigiatura. Durante il periodo della vendemmia fino alla Festa di San Martino, le vergare erano impegnate nella preparazione dei dolci della tradizione: la crescia con l'uva, il pane di granturco con l'uva, la pizza con le noci, le frittelle con gli acini di granturco, la crescia con le mele, il pane nociato. Un altro ingrediente immancabile era la sapa: il polentone con la sapa, la sapa con l'uva e il miele, i biscotti di mosto, i sughetti, i fichi col mosto, le scorzette fatte con le bucce dei meloni che venivano fatte essiccare al sole e messe a bollire nel mosto con zucchero e chiodi di garofano per essere poi conservate in barattoli di vetro, le paccucce che sono mele e pere tagliate a spicchi e quindi cotte nel mosto in maniera simile alle scorzette.

Le origini contadine dei piatti tipici marchigiani

Ma uno degli avvenimenti maggiormente significativi nella vita del contadino era sicuramente rappresentato dalle nozze, una festa che prevedeva la preparazione di ben due pranzi: uno quando partiva il corredo della sposa con la camera da letto, l'altro il giorno delle nozze. Si chiamava una donna esperta di cucina, organizzatrice del lavoro di preparazione che consisteva nel cucinare il cibo in abbondanza ma anche nel compito di pulire, spezzare gli animali, predisporre le pentole, alimentare il fuoco e servire gli invitati. Il pranzo fissato per le nozze era molto ricco: antipasto con ciauscolo, prosciutto, lonza, salsicce, cappelletti, galantina con cicoria e bietole bollite, vincisgrassi o tagliatelle, frittura mista di carne, crema, olive, verdure fritte, arrosto di pollo, agnello, faraona, piccioni ripieni con insalata, per dolce zuppa inglese, pasta all'anice o al vino e per terminare caffè e vino cotto.

Un altro momento molto importante della vita contadina era rappresentato dalla pista che prevedeva l'uccisione del maiale e la preparazione di tutti gli alimenti ad essa correlati. Si doveva predisporre tutto con grande minuzia e si doveva prestare particolare attenzione alla pulizia per evitare che gli insaccati si rovinassero e si dovesse poi gettarli via. Per procedere alla pista, si chiamava una figura apposita, il pistarolo (o norcino) che si presentava in casa del contadino con coltelli affilati e tutta l'attrezzatura necessaria. Il maiale prescelto aveva un trattamento speciale rispetto agli altri: veniva nutrito con il pastone cioè gli avanzi di cucina compresa la lavatura dei piatti a cui veniva aggiunta una manciata di semola, la vergara inoltre ne controllava costantemente lo stato di salute e il peso. Il maiale era una risorsa molto importante per il mezzadro perché permetteva di ricavare vari piatti molto succulenti. Del maiale non si buttava via niente, infatti, gli stessi visceri dell'animale venivano ripuliti e utilizzati per confezionare gli insaccati. Si preparavano così prosciutti, spalle, lonze di capocollo e di lombo, pancette. La restante carne si utilizzava per il confezionamento delle salsicce, dei salami lardellati, di ciauscoli di carne e fegato, cotechini e quant'altro.

La fine della pista era segnata da una grande festa che coinvolgeva tutti coloro che avevano partecipato al duro lavoro svolto, anche in questo caso la festa era caratterizzata da piatti prelibati: sangue lessato tagliato in piccoli pezzi o a fette, cotto in un soffritto di cipolle, sale e pepe a cui qualcuno aggiungeva anche bucce d'arancia, si proseguiva con squisita pasta asciutta condita con sugo fatto a base di grasso e magro di maiale, per concludere con una grande padellata di spezzatino di maiale con abbondante vino novello. La festa, come scrive lo studioso Vincenzo Bonelli, coincideva con un bisogno fisiologico di proteine e grassi, in un'epoca in cui erano considerate un lusso.

La civiltà contadina ci ha quindi regalato un ricco patrimonio di piatti della tradizione tutti collegati alle ricorrenze dei lavori campestri. Va poi aperto un capitolo a parte per quanto riguarda i dolci specifici per date ed eventi particolari che si svolgevano durante l'anno. Alcune di queste preparazioni sono di origine conventuale o borghese e sono state assimilate e rielaborate in modo tale da essere inserite nella tradizione gastronomica popolare.

Molto curiosa l'usanza del cosiddetto paulitto diffusa soprattutto a Pioraco e che prevedeva di cucinare una pizza nella quale si inseriva una monetina, chi la trovava diventava padrone di casa per tutto l'anno: il nome di questo piatto deriva da una moneta di cinquanta centesimi dello Stato Pontificio. Per la festa dell'Epifania i dolci erano riservati ai bambini che aspettavano la befana e si trattava delle cosiddette pecorelle di pesce o di fiasco che venivano farcite con marmellata, uva secca, mandorle, fichi secchi, noci tritate, cannella, sapa e mele tritate, poi c'erano i befanini con uova, farina, zucchero, mistrà e con cui si creavano tante figure diverse come befane, pupazzi, animali e stelle comete, favoriti (impasto di farina, zucchero e anice cui si dava la forma di gnocchi da cuocere al forno), santi re magi e santaremmascini (pasta di pane e anici da confezionare a forma di re magi e befane da cuocere al forno), pastarelle, paste con l'ammoniaca. Il 3 febbraio per la Festa di San Biagio, invece, a Sarnano si preparava il lattacciolo. Per Carnevale invece c'era una ricchissima varietà di sfrappe, scroccafusi, castagnole, cicerchiata, arancini, caciuni di Monte Urano, pistinco (che diventa crostenga, frustenga e costrenga a seconda della località in cui veniva preparato).

Neppure durante la Quaresima si fermava la preparazione dei dolci, per integrare la scarsa alimentazione si confezionavano i fiocchi fatti con buccia di limone grattugiata, vaniglia, cannella, per realizzare nastrini che venivano fritti nello strutto passandoli nell'alchermes e zuccherandoli abbondantemente. Il 19 marzo si facevano invece le zeppole e i bigné di San Giuseppe. A Pasqua era tradizione mangiare la pizza dolce di Pasqua, l'agnello pasquale e la ciaramilla urbinate (ciambella da cuocere al forno con sopra meringa e confettini colorati). Il Lunedì dell'Angelo c'erano due specialità: la ciambella frastagliata prima scottata e poi cotta al forno e le ciambelle normali.

Il giorno delle nozze, invece, ricorreva l'usanza secondo cui la sposa doveva ricevere in dono una focaccia di farro, dopo la nascita del primo figlio invece si usava portare in dono alla sposa ciambelle, cresce, biscotti e fuscelli mentre in occasione del Battesimo, della Cresima e della Comunione, i dolci preferiti erano ciambelloni e piatti di crema. Altri dolci tipici del maceratese erano il buccellato e il serpe che è un dolce a base di mandorle che viene riproposto anche per le feste natalizie, le frittelle di limoni e le frittelle di Sant'Antonio. Dolci tipici della mietitura erano anche il pan pepato (con mandorle, uvetta, gherigli di noci, nocciole, canditi, sapa, noce moscata, sale e pepe) e gli immancabili maritozzi (pasta lievitata arricchita con uvetta, pinoli, canditi) da cuocere sotto forma di panini. C'erano anche le paste della trebbiatura preparate con farina, uova, ammoniaca, zucchero e latte.

 

 

Le origini contadine dei piatti tipici marchigiani

L'Invenzione della cucina marchigiana

Nel 1861 a Loreto viene stampato un ricettario anonimo il cui titolo è Il cuoco delle Marche che è già una dichiarazione di intenti nel rivendicare l'orgoglio della cucina locale. Fatto storico da non trascurare è la vittoria del generale Cialdini che aveva sconfitto le truppe pontificie l'anno precedente, nel 1860, a Castelfidardo consentendo alle Marche di entrare a far parte del Regno d'Italia il successivo 4 novembre, proprio grazie all'unificazione del Paese si sviluppò un nuovo interesse per le "differenze regionali": lo spirito che anima questo manuale di cucina è dunque quello di far emergere le differenze e le peculiarità di un singolo territorio, quello marchigiano, rispetto agli altri. A partire dal XIX secolo, in molte realtà regionali e province italiane, fioriscono le pubblicazioni dei "ricettari municipali" che avviano un decisivo percorso di recupero della cultura gastronomica dei territori che avrebbero costituito le componenti principali della cultura nazionale.

Quarant'anni prima della pubblicazione del Cuoco delle Marche, lo stesso Giacomo Leopardi, il 18 settembre del 1821, aveva annotato questa riflessione nello Zibaldone: "quanto possa l'assuefazione e l'opinione anche sul gusto de' sapori, ch'è pure un senso naturale e innato, e ciò nonostante, varia spessissimo fino in un medesimo individuo, secondo la differenza delle assuefazioni, e delle opinioni intorno al buono o cattivo de' sapori, è manifesto per l'esperienza giornaliera e comparativa si de' gusti successivi di un individuo, sì de gusti e giudizi de' diversi individui".

Il poeta ha anche riflettuto sulle qualità e le potenzialità di alcune produzioni alimentari marchigiane e si è fatto promotore delle leccornie del suo territorio: a Bologna fece assaggiare ad alcuni conoscenti delle pietanze che i familiari gli facevano recapitare da Recanati.

In una lettera che risale all'8 febbraio 1826 ringrazia il padre per l'invio di queste provviste: "il dono che ella mi manda mi sarà carissimo, e mi servirà per farmi onore con questi miei amici, presso i quali trovo che l'olio e i fichi della Marca sono già famosi, come anche i nostri formaggi, che qui si stimano più del parmigiano".

Questa ed altre testimonianze raccontano l'apprezzamento bolognese per le prelibatezze marchigiane e ci raccontano di un Giacomo Leopardi promotore e divulgatore delle delizie gastronomiche marchigiane.

Le ricette raccolte in questo manuale hanno una marcata connotazione territoriale, alimento principe è costituito dalle verdure che venivano utilizzate in particolare nella preparazione delle minestre, lo stesso Leopardi da bambino ne farà oggetto di una delle sue prime composizioni in versi: "piccola seccatura vi sembra ogni mattina / Dover mangiare a mensa la cara minestrina?".

La maggior parte delle ricette partono da ingredienti umili e di reimpiego, ma che, dopo una preparazione laboriosa e accurata, diventano piatti raffinati. Anche le verdure possono avere elaborazioni sontuose. Uno dei piatti immancabili in questo ricettario è di certo rappresentato dal "Brodetto alla marinara". Oltre ai fritti caratteristici compare anche la galantina. L'accompagnamento di certi piatti poteva consistere in certe "frutta ed erbe sotto aceto" ideali per le guarnizioni e per salse di grasso e magro nella loro caratterizzazione agro dolce.

Tra i dolci che abbiamo citato, una menzione speciale va riservata ai "cialdoni al vino bianco" e i "cialdoni alla crema", autentiche leccornie delle famiglie agiate marchigiane ricordate anch'esse da Giacomo Leopardi e ricevute in dono dalla nonna durante l'infanzia. Qualche anno dopo della pubblicazione de Il cuoco delle Marche, nel 1891 è stato pubblicato Il cuoco perfetto marchigiano, nello stesso anno viene pubblicata anche la prima edizione de La scienza in cucina e l'arte di magiare bene, famosissima opera di Pellegrino Artusi particolarmente approfondita e divenuta famosa nel tentativo di comporre un vero e proprio vademecum della cucina italiana. L'autore è il primo ad esaltare la ricchezza complessiva della nazione nelle arti della mensa attraverso l'esaltazione delle sfumature e delle differenze di ogni ambito particolare senza però soffermarsi sulla cucina marchigiana, l'uscita de Il cuoco perfetto marchigiano viene dunque a colmare questa lacuna. L'autore del libro si sofferma sul fatto che la cucina è quella dove regna il gusto, l'arbitrio, l'immaginazione ma anch'essa ha i suoi principi come tutte le altre professioni.

Nella sezione del libro dedicata ai timballi è riportata anche la preparazione dei Visgras un termine che si riconduce al princisgras descritto da Antonio Nebbia nel suo libro settecentesco Cuoco Maceratese e ai Vincisgrassi termine definitivo per indicare il tipo di pasta al forno costituito da sfoglie come quelle dei tagliolini impiegate per rivestire una casseruola imburrata e spolverizzata di mollica di pane grattata sul cui fondo si fa una decorativa stella di fette di prosciutto per poi iniziare con gli strati di sfoglia ricoprendo tutto il recipiente fino ai bordi intervallando la pasta con strati di parmigiano grattugiato, ragù di animelle e tartufi, pezzetti di burro fresco, varie spezie pregiate e besciamella. Una volta cotto tutto al forno si rovesciava su un piatto da portata: sono questi gli antenati dei vincisgrassi che in varie parti delle Marche si cuociono e preparano con diverse varianti che rimangono comunque tutte attaccate al proprio territorio di appartenenza e al suo parlato.

 

 

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Il passaggio dalle osterie ai ristoranti

I luoghi della convivialità sono molteplici, possono avere il carattere privato e intimo delle abitazioni domestiche come le case di campagna, oppure possono essere le dimore signorili caratterizzate da grandi e fastose sale da pranzo con arredi, corredi e tipologie di spazi che si affermeranno soprattutto in ambito borghese.

Gli ambienti della convivialità festiva sono stati numerosi e difficilmente inquadrabili, l'antica società rurale viveva le feste collettive adattando stanzoni di dimensioni adeguate alle adunate familiari oppure utilizzando fiere o piazze dove allestivano ricchi banchetti e merende di campagna. Spesso le tavolate venivano allestite nell'aia e ospitavano insieme i braccianti più umili e i ricchi proprietari.

Le classi nobili vivevano i loro momenti conviviali al di fuori della quotidianità ordinaria: amavano immergersi in un'atmosfera essenziale e rustica, caratterizzata da piatti e sapori campagnoli, la convivialità cittadina più mondana e salottiera trovava espressione nel Carnevale e nei teatri.

Il ristorante inteso come spazio di cucina di alto livello ha le sue origini nella Francia del Settecento ed è ancora più recente in Italia, collegato inizialmente con gli alberghi, le origini di questa tradizione sono antiche e si collocano nelle stazioni di posta e nelle locande per il ristoro dei viaggiatori lungo le vie di comunicazione come le strade consolari romane. Lungo la direttrice della strada Flaminia del Settecento, ad esempio, i ritrovamenti archeologici hanno riportato alla luce l'esistenza di antiche tabernae e tabernaculae.

La cucina delle trattorie e delle osterie era rustica, strutturalmente semplice e povera ma comunque in grado di presentarsi sostanziosa e dignitosa, al di sopra degli standard della popolazione e assimilabile ad un pasto contadino medio. Le osterie e le locande risultano pertanto luogo del mangiare umile, godibile per gli stomaci forti e facilmente saziabili: alcuni documenti che risalgono al ‘600 raccontano che, quando venivano accolti in casa ospiti numerosi, la gente di più bassa estrazione sociale veniva spedita in osteria per essere rifocillata. Le locande accoglievano spesso anche le soldataglie di passaggio. Al passaggio delle truppe napoleoniche nel 1797, Monaldo Leopardi racconta di alcuni militi francesi giunti a Recanati che vollero far colazione in una bettola, e "per civiltà o per sospetto vollero che io bevessi con loro e prima di loro, sento ancora il ribrezzo questa bibita, e del vedermi in un'osteria per la prima ed unica volta nella vita, ma la necessità e la paura fanno scordare le smorfie dell'educazione". Questa testimonianza del Conte Monaldo Leopardi è quanto mai esemplificativa della riprovazione aristocratica verso un luogo di ristoro come quello delle osterie a causa del loro carattere plebeo e popolare ma anche perché ospitavano spesso personaggi poco raccomandabili, a ulteriore conferma di questo pregiudizio verso le osterie citiamo anche San Giacomo della Marca , noto predicatore quattrocentesco originario di Monteprandone che definiva le taverne "Sinagoga omnium ribaldorum": queste anonime malfamate osterie avevano però il loro momento di gloria i personaggi illustri in viaggio dovevano fermarsi per pernottare, allora le osterie erano soggette a un veloce riallestimento per essere messe a nuovo e diventare vere e proprie regge anche se solo per una notte.

Un esempio è rappresentato dalla Regina d'Ungheria che viaggiava attraverso la Marca di Ancona nel 1631 e che si vide costretta a fermarsi in un'osteria di Grotte a Mare che venne rapidamente adeguata a sontuosa camera adibita a banchetto con tanto di vasellame e suppellettili pregiate per adempiere al meglio agli obblighi di un'adeguata ospitalità.

Nel 1786 un simile momento di gloria fu vissuto anche dall'osteria del Piano di Ancona, stavolta per ospitare un elegante banchetto offerto dal governatore a Papa Pio VI, di ritorno da Loreto.

Oltre che luoghi di ristoro e rifugio per svariate categorie di persone, compresi anche viandanti e lavoratori lontani da casa, per i contadini e i commercianti, le osterie erano anche luoghi dove avvenivano significativi confronti dialettici, scambi di notizie e informazioni, dibattiti spesso accesi sulle questioni più disparate.



Le prime donne imprenditrici del settore enogastronomico

Negli anni immediatamente successivi al dopoguerra, molte donne di campagna particolarmente dotate in cucina, iniziano a proporsi come cuoche stipendiate per occasioni come pranzi importanti o eventi agricoli come la mietitura e la trebbiatura ma anche in occasione di pranzi di matrimonio. Queste donne iniziavano così a gestirsi come vere e proprie imprenditrici dovendo gestire in prima persona anche le spese e gli approvvigionamenti e spesso finivano poi per andare a lavorare o gestire in prima persona trattorie e locande.

La grande capacità di queste donne imprenditrici fu quella di riuscire a conciliare le ricette tradizionali con spunti più elaborati e innovativi della cucina signorile riuscendo così a intuire le possibilità derivate da un benessere economico più diffuso dovuto all'industrializzazione e al graduale spopolamento delle campagne. Ora nuove realtà sociali iniziano a concedersi il lusso di un pranzo domenicale al ristorante, alcuni esercizi nati proprio in questo contesto storico, sono considerati oggi delle guide gastronomiche e sono diventate mète di pellegrinaggio dei più esigenti gourmet: il riscatto di un modello in origine "basso" e ora celebrato dai cultori dell'"alto".


 

Le origini contadine dei piatti tipici marchigiani

Per informazioni:

È possibile approfondire gli argomenti che abbiamo trattato leggendo il libro "Storia dell'alimentazione della cultura gastronomica e dell'arte conviviale nelle Marche" scritto da Ugo Bellesi, Ettore Franca, Tommaso Lucchetti, Il lavoro editoriale, 2009.

Il libro è in vendita anche presso l'Ufficio Informazioni Turistiche di Recanati in Via Leopardi, 9.




Ufficio Informazioni e Accoglienza Turistica IAT Recanati:

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